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Il Partito Democratico per il modello elettorale francese

Stefano Ceccanti

Nel dibattito sulla riforma elettorale la rinascita del movimento referendario ha impedito che le pulsioni negative della piazza restassero le sole risposte alla crisi dell'eterna transizione istituzionale, aggravata drammaticamente dalla riforma Calderoli. La proposta di cui il Partito Democratico deve farsi portatore affonda le radici nella Tesi n. 1 dell'Ulivo 1996, che così recitava: «Ai fini di una maggiore legittimazione democratica per ciò che concerne il sistema elettorale, appare preferibile l'adozione del collegio uninominale maggioritario a doppio turno di tipo francese».

Questa indicazione risponde a due obiettivi di massima: il primo è quello di garantire un rapporto effettivo dell'eletto con i suoi elettori, evitando quello del tutto spersonalizzato dell'ultima legge elettorale e senza cadere nel difetto opposto: l'anomalia italiana del sistema delle preferenze. Sistema che nessuna grande democrazia europea ha mai pensato di introdurre e contro le cui degenerazioni nacque il movimento referendario dei primi anni '90.
La competizione nei partiti per la designazione alle candidature, attraverso primarie, deve avvenire in una fase temporale diversa rispetto a quella della competizione tra partiti e coalizioni, altrimenti essa degenera e ogni eletto, avendo come rivale il proprio sodale di lista, finisce per ragionare in chiave individualistica, fuori da una coerenza complessiva, prima e dopo il voto.

Il secondo obiettivo, garantito anch'esso dal collegio uninominale, è quello di condurre il più naturalmente possibile l'elettore a concepire la scelta della rappresentanza anche come una scelta in vista del Governo, per progetti in grado di essere tradotti in un indirizzo politico coerente. Come scriveva il filosofo Jacques Maritain nel 1944, «Il suffragio universale non ha lo scopo di rappresentare semplicemente opinioni e volontà atomistiche, ma di dar forma ed espressione, secondo la loro importanza rispettiva, alle correnti comuni d'opinione e di volontà che sono in atto nella nazione» e per questo «la linea politica di una democrazia deve essere francamente e decisamente determinata dalla maggioranza…

La maggioranza e la minoranza esprimono la volontà del popolo in due modi opposti, ma complementari e egualmente reali». Dopo di che, è evidente che trattandosi di materia pattizia è ragionevole ipotizzare anche delle subordinate a questa ipotesi principale, ma non fino al punto in cui le subordinate contraddicano la principale. Sarebbe ben strano, infatti, dopo aver evocato il sistema francese, optare dal punto di vista della scelta dei rappresentanti per gli opposti errori delle liste bloccate lunghe in cui i candidati non possono essere presenti sulla scheda o delle preferenze che scardinano i partiti e la coerenza interna dei gruppi.

Sarebbe altrettanto strano, dal punto di vista della scelta dei Governi, superare i gravi limiti del sistema attuale per
imboccare quella del ritorno ad alleanze post-elettorali, forse ugualmente eterogenee e per di più prive di un chiaro mandato elettorale, andando così in direzione opposta a quella richiesta dai referendum.

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Così come Syriza in Grecia non era il futuro profetico per la sinistra italiana, così non dobbiamo considerare che la sconfitta di Miliband in Inghilterra sia esattamente trasponibile nel dibattito della sinistra italiana. In Inghilterra ha pesato potentemente lo straordinario successo del partito nazionalista scozzese. Non facciamo equazioni troppo semplici. In Italia aspettiamo l’esito delle elezioni amministrative. Credo andranno bene, anche se peserà la disaffezione degli elettori vrso le elezioni locali. La formazione delle liste in Campania è il simbolo di un grave problema che si sta determinando nel PD: non basta imbarcare tutti per vincere. Bisogna vincere lealmente, con persone presentabili.

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