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“Voci di donne partigiane”

By 24/04/2025Aprile 28th, 2025Attualità, Blog

“Voci di donne partigiane”
Testimonianze di: Albina Caviglione Lussu (Laura), Tersilla Fenoglio Oppedisano (Trottolina), Marisa Diena (Mara), Marisa Ombra, Albina Caviglione Lussu (Laura), Frida Malan, Ada Gobetti, Matilde Dipietrantonio, Livia Laverani Donini, Teresa Cirio (Roberto), Nelia Benissone Costa (Vittoria).
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Albina Caviglione Lussu (Laura)
“Il 25 luglio verso sera abbiamo sentito un gran parlottare fuori: “E’ caduto il fascismo” gridavano. Mio figlio Libero è sceso per le strade del borgo, e gli sembrava strano di non vedere la festa che si aspettava. A mano a mano che si avvicinava al centro, però, incontrava gruppetti sempre più numerosi che manifestavano apertamente la loro gioia. Quando è tornato a casa, assieme ad altri amici, abbiamo brindato. Pensavamo che le sofferenze stessero per finire.
Invece è arrivato l’8 settembre. Nelle giornate subito dopo l’armistizio non siamo andate in fabbrica e abbiamo aiutato gli sbandati. Noi donne ci preoccupavano di procurare indumenti civili ai soldati che chiedevano aiuto, oppure tingevamo le loro divise, togliendo i bottoni e le stellette.
In ottobre quando si è costituita la Repubblica di Salò, mio figlio è andato a nascondersi nelle Langhe e poi in val di Lanzo. Ho cominciato, tramite lui, a capire le esigenze e necessità dei partigiani. E’ stato proprio per rispondere alle necessità di chi era in montagna che sono andata a parlare con il direttore del maglificio per acquisti straordinari di maglie e mutande di lana. In un primo tempo, pur con molta paura, il direttore ha concesso la vendita straordinaria, ma poi ha detto che non voleva più vender niente. Il controllo dei tedeschi sulla produzione era diventato più attento. Allora… ci siamo aggiustate… e in montagna le maglie hanno continuato ad arrivare”.
Tersilla Fenoglio Oppedisano (Trottolina)
“L’8 settembre io sono scesa ad Alba e sono andata davanti alla caserma: ho visto i nostri soldati che consegnavano i fucili mentre i tedeschi ammucchiavano le armi all’interno del cortile: sono entrata, e ho visto che tenevano prigionieri i nostri. In quel momento è scattata la molla del patriottismo contro il tedesco in casa. L’indomani io e qualche altro ci siamo messi in mezzo alla strada tutto il giorno, a bloccare i camion carichi dei nostri soldati che arrivavano dalla Francia e volevano ritornare a casa loro, al Sud. Dicevamo: “Non andate giù, se no vi pigliano prigionieri e vi portano in Germania”. Quella era già Resistenza. La Resistenza è nata di lì”.
Marisa Diena (Mara)
“Eravamo pervenuti alla lotta armata con le motivazioni più diverse. Chi con ideali già ben delineati; chi per rifiuto di aderire ai bandi della Repubblica Sociale Italiana; chi per paura di essere inviato al fronte; chi, con il progressivo rafforzarsi della guerriglia, attratto dal fascino esercitato dal valore e dall’abnegazione dei combattenti. E anche la lotta, pur avendo aspetti pratici comuni a tutti, poteva essere sentita in modo differente. C’erano le formazioni “Garibaldi”, “Giustizia e Libertà”, “Autonome”, “Matteotti”, con alla testa persone con diverso orientamento politico, ma i giovani che vi aderirono erano dapprima, salvo una minoranza, spoliticizzati, ignari delle varie collocazioni partitiche. In seguito si manifestò una differenziazione. Chi sentiva l’esigenza soprattutto di affermare l’indipendenza dell’Italia dagli occupanti tedeschi; chi, insieme alla guerra patriottica, si sentiva impegnato in una guerra civile, voleva liberare contemporaneamente l’Italia dal nemico esterno, ma anche da quello interno, il fascismo; c’era chi, insieme a questi due aspetti univa, e a volte privilegiava, la lotta di classe, pensando alla rivoluzione. Straordinariamente variegato era il fronte antifascista, a seconda dei luoghi e delle formazioni, sì, ma anche degli individui”.
Marisa Ombra
“(Nel Monferrato) Fino mi propose di accompagnarlo in una lunga passeggiata attraverso i prati, nel corso della quale mi sottopose a una sorta di interrogatorio. Che si concluse con la domanda se preferivo fare lavoro militare o lavoro politico. Non sapendo niente dell’uno come dell’altro, risposi: “Tutt’e due!”.
Quella passeggiata nel prato la ricordo con precisione perché ha probabilmente un qualche contenuto simbolico. Per la prima volta prendevo decisioni importanti, assumevo responsabilità personali impensate fino a quel momento, e me le assumevo da sola, senza il sostegno e il consiglio dei familiari. Improvvisamente ero adulta e responsabile di me stessa. Questo sentimento si accompagnava una sensazione di straordinaria libertà. (…)
Libertà e responsabilità sono stati i sentimenti più forti che mi hanno accompagnata lungo tutto il periodo della Resistenza. Tutto sommato anche dopo”.
Marisa Diena (Mara)
“Mi spostavo ogni giorno in bicicletta, avevo alcune staffette che mi portavano notizie da singole località. Io compilavo un breve resoconto che quotidianamente facevo pervenire al Comando recandomi all’“appuntamento”. Il luogo dell’appuntamento cambiava frequentemente, ora in un boschetto, ora in riva a un torrente o presso una casa abbandonata. All’appuntamento giungevano staffette da ogni distaccamento della zona, era sempre presente un componente del Comando; lì si portavano notizie e si ricevevano disposizioni. Devo dire ch’era per me esaltante conoscere “il più possibile come stanno le cose”, questo sentimento mi sarebbe rimasto per tutta la vita. Essere informata di avvenimenti, situazioni, conoscere persone, tante persone ti apriva l’orizzonte sulla realtà che ti circondava.
Assolvevo con grande entusiasmo il compito che mi era stato affidato. Paese per paese andavo a trovare le donne a casa, poi le riunivo in piccoli gruppi. Nel costituire così i Gruppi di difesa della donna, parlavo loro della necessità di coordinare, intensificare l’attività contro il nemico, ma anche dell’importanza del fatto che le donne entravano per la prima volta in massa nella storia del nostro Paese. Si discuteva con consapevolezza del diritto di voto che ci saremmo conquistate e del valore decisivo che aveva per noi e per le nostre famiglie l’interesse e la partecipazione alla politica delle donne. In molti casi i Gruppi di difesa collaborarono con le giunte clandestine per risolvere i problemi immediati della popolazione”.
Albina Caviglione Lussu (Laura)
“In città intanto abbiamo organizzato i Gruppi di difesa della donna. Anche il CLN della fabbrica era costituito da sole donne, cinque appartenenti a partiti diversi. Discutevamo alla pari e poi si agiva di conseguenza. Io ero la responsabile dell’organizzazione. Gli spunti e le direttive le ricevevamo dal CLN cittadino. Cercavamo di svolgere un’azione in favore di tutti i bisognosi del rione in cui si trovava la fabbrica. Si comperavano le patate o le ottenevamo in cambio di maglie e indumenti vari, e si distribuivano alle famiglie e alle operaie che ne avevano più bisogno.
Non ci siamo fermate solo a queste attività. Nelle case che ritenevamo più sicure, organizzavamo delle sedi di pronto soccorso per gappisti o partigiani feriti. Dirigeva questo lavoro la compagna Lia Corinaldi, e il professor Cerutti andava in quelle case a visitare, curare, fare interventi chirurgici. Si trattava di praticare delle iniezioni, le facevamo noi stesse.
Anche la mia casa è stata scelta come sede clandestina di pronto soccorso. Prima di andare a lavorare preparavo ogni cosa in modo che il medico potesse procedere con speditezza. Ai vicini di casa che vedevano l’andirivieni, facevo credere che ero una borsanerista. (…) Per un certo periodo ho avuto in casa due partigiane combattenti di Cuorgnè: Tullia De Mayo, che aveva sulla testa una taglia di 100.000 lire, l’altra una taglia da 50.000 lire. (…)
Le donne in questo periodo hanno lavorato forse più degli uomini, anche perché davano meno nell’occhio e potevano con più disinvoltura nascondere manifestini, medicinali e altro nelle borse e borsette. I medicinali li prendevo da suor Giuseppjna, una suora dell’ospedale delle Molinette. Non ho mai saputo se questo fosse proprio il suo nome o il nome di battaglia, ma è stata questa suora che m’ha insegnato anche come nascondere le medicine addosso e negli abiti. Certo, tutto quello che hanno fatto le donne della Resistenza, a guerra finita non è stato adeguatamente riconosciuto, e neppure oggi. (…) Tanto più che sono convinta che, se ci fosse bisogno di nuovo, le donne antifasciste s’impegnerebbero ancora con tutte le loro forze”.
Frida Malan
«Ogni cosa era richiesta in quegli anni, dalla pensione alle casalinghe a parità di lavoro a parità di salario, diritto al voto, diritto al lavoro, scuola aperta a tutti di ogni tipo e grado, assistenza alla madre e al bambino. Raramente nella storia, in così poco tempo, in cui c’era da difendere anche la propria vita, il cervello delle donne ha tanto lavorato ed ha preparato piani per il futuro, piani che se fossero stati realizzati, avrebbero dato al Paese un volto di gran lunga migliore».
Ada Gobetti
«Dappertutto troviamo la medesima preoccupazione di portare le donne su un piano di parità politica, economica, giuridica, potenziando e valorizzando quelle che possono essere le loro funzioni specifiche come donne, di studiare i vari problemi femminili verso una soluzione democratica e progressiva. Si afferma il principio di uguale salario a uguale lavoro, si rivendica alla donna la possibilità di scegliere un mestiere, un’arte, una professione secondo le proprie capacità e le proprie tendenze, si chiedono le giuste provvidenze in favore delle madri e dei fanciulli. Si esige il riconoscimento di capo-famiglia per le donne che hanno effettivamente persone a carico; si studiano e si dibattono i problemi delle artigiane; si imposta il problema delle casalinghe (…). Si sente in ogni pagina, in ogni parola, l’impegno di continuare a lottare perché le donne mantengano anche nell’opera di ricostruzione il posto che si sono conquistato con il sangue e con le lagrime, perché il lavoro femminile in ogni sua forma cessi di essere oggetto di sfruttamento».
Tersilla Fenoglio Oppedisano (Trottolina)
“Io ero la staffetta di Nanni, e ho tenuto i collegamenti in un primo tempo con il CLN di Torino e in un secondo tempo, per tutto l’inverno del ’44-’45, con il Raggruppamento del Monferrato.
Per arrivare a Torino andavo a piedi fino a Bra, poi da Bra prendevo il treno. A Torino avevo l’appuntamento a una fermata del tram, con una parola d’ordine; arrivava uno, mi dava un plico, io lo mettevo dentro una cartella e lo portavo nella Langa. Però non sapevo e non volevo sapere che cosa contenesse il plico; mi hanno detto più tardi che c’era del denaro. Avevo una gran paura e dicevo sempre ai miei comandanti: “Per piacere, se c’è qualche cosa che scotta, non ditelo in presenza mia, perché al primo pizzicotto che mi danno, io dico tutto quello che so; se non so niente inventerò qualche frottola e non farò del danno a nessuno”. Ho avuto tante volte paura: l’ho vinta oppure non l’ho vinta, è naturale”.
Matilde Dipietrantonio
“Io ho fatto la guerra alla guerra. Non so se rendo l’idea: la guerra contro la guerra.
Ed ecco cosa è venuto fuori: andiamo a liberare quelli che sono stati presi. Prima meta, che è stata poi quella totale del mio impegno nella Resistenza: liberare i condannati a morte. Ho fatto sempre questo.
Per cui io, con la mia faccia, senza cambiare nome – io mi chiamavo Matilde, e Matilde sono rimasta – ho sempre rapito qualcuno di loro per la strada e ho sempre ottenuto in cambio dei condannati a morte, per tutta la mia partecipazione alla Resistenza.
Chi fermava gli ostaggi ero io. Io avevo paltò blu, collettino bianco, calze corte e una cartella. Nella mia cartella – le vecchie cartelle di scuola -, dentro la cartella avevo una Steier, che era la progenitrice della P38 (…) Ma questa Steier era bella, perché aveva il manico rotto e gliel’avevano rifatto di legno grosso. Quindi era una di quelle armi che io tenevo tranquillamente nella cartella. E quando c’era da fermare l’ostaggio (…) cominciavo io…”.
Livia Laverani Donini
“Non potrei mai mutuare dagli uomini l’ammirazione per le virtù guerriere; ritengo che averle esaltate sia stata una non indifferente componente per far accettare le guerre disumane e stupide. Ho combattuto perché si affermassero i valori civili, non i valori militari. Questo mi toglie ancora i sonni adesso: la necessità di fare la guerra.
Noi ci siamo state tirate per i capelli per fare alla guerra. Solo questo ha potuto giustificarlo. Né l’amore per l’avventura, né il bisogno di affermare il coraggio fisico, e ne abbiamo avuto tanto. Non ci sto a questi ricordi: un giorno parlavo della mia incapacità di superare l’odio per i fascisti e i tedeschi collocandoli storicamente, e io figlio mi disse: “Hai ragione, se hanno obbligato una donna come te a prendere le armi”. Li odio per ciò che mi hanno costretta a fare. Che però è stata una scelta, ovviamente.
Anzi, avevo i bambini a casa, e mio marito non era tornato dalla Russia. Ma ho potuto contare sui miei genitori. Mia madre non mi ha mai detto: ”Pensa che hai dei bambini” (…) la nostra casa a Villanova Mondovì era ricovero di partigiani. Chiunque passasse era un figlio.
Il modo per entrare in contatto con le bande partigiane è stato il più solito: portare sale e fiammiferi a degli sbandati. Di lì iniziò la mia azione di collegamento. A metà del 1944 venni individuata, arraffai i miei due bambini e mi buttai verso la montagna. Entrai a far vita di banda. I miei figli li ho tenuti qua e là, poi a casa, poi li ho di nuovo portati via con me quando nel 1945 le cose si sono fatte più pericolose, e c’era il rischio che mi ricattassero attraverso di loro. Nella nostra formazione, la V Alpi, c’erano altre donne, però io ero l’unica combattente. E del resto cosa vuoi che facessi, la sarta o la cuoca?
Essere l’unica donna con tanti uomini allora non mi ha mai messo in contraddizione. Forse contava il fatto che ero moglie di uno che non era tornato dalla Russia, figlia e sorella di comunisti che avevano pagato con la galera o con la vita. Mi dicevano, i miei compagni, che avevo coraggio fisico, però avevo delle paure che mi bloccavano. Quello che chiamavano coraggio era paura. Se la pace può essere pace “al femminile”, sta proprio in questo rifiuto della violenza come possibile manifestazione eroica. Anche se, posto che ci dovessi tornare, farei le stesse cose e le farei anche meglio”.
(…) Il periodo partigiano è il migliore della mia vita. Non ho di quel tempo ricordo di un mio gesto che vorrei cancellare o che vorrei non aver compiuto. L’aderenza della mia coscienza attuale ai miei gesti di allora è perfetta e completa e amo, come allora, i miei compagni di banda”.
Teresa Cirio (Roberto)
“Poi il 25 è cominciata l’insurrezione. Gli operai sono stati due, tre giorni a combattere nelle fabbriche; lì ci sono stati degli atti di eroismo fantastico. I tedeschi avevano circondato le officine, ma si trovavano contro le SAP, che a Torino sono state formate dalla classe operaia, Poi quando sono arrivati i partigiani hanno dato man forte. Ma Torino praticamente l’han liberata loro, gli operai.
I primi a arrivare qui sono stati i partigiani di Barbato, provenienti da Sassi. C’era stato il tradimento del colonnello Stevens, capo della missione alleata in Piemonte, che cercava di impedire l’insurrezione. Radio Londra ha dato la parola d’ordine: “Aldo dice 26 x 1”, cioè attaccare all’una del giorno 26, poi Stevens ha cambiato l’ordine. Gli inglesi non volevano che liberassimo noi la città, volevano arrivare prima loro. Ma i nostri se ne sono accorti e hanno mandato le staffette a avvisare le formazioni di muoversi senza tener conto di Stevens. Intanto la maggioranza degli operai era asserragliata nelle fabbriche. Quando sono arrivate le formazioni c’è stata la grande battaglia di via Asti, dove c’era la caserma delle Brigate nere.
In quelle giornate noi correvamo da una parte all’altra della città. C’erano molti cecchini, nascosti nelle case, nelle soffitte, cosicché dal 26 al 28 aprile abbiamo avuto ancora tanti morti, tanti ragazzi e ragazze di valore” .
Nelia Benissone Costa (Vittoria)
“Nei giorni della liberazione io avevo il collegamento di tutta Torino e dovevo vedere quali fabbriche avevano armi e quali invece ne richiedevano: dove mancavano le armi dovevo cercare di farle arrivare.
Quindi il primo giorno dell’insurrezione io ho dovuto fare quel lavoro e, per la prima volta in vita mia, andare a parlare in pubblico, alla Microtecnica.
Torino era tutta un combattimento. Si passava da una zona partigiana nostra, da una via già liberata, a vie e zone che erano ancora da liberare. Ho visto cose meravigliose… Ci sarebbe da scrivere libri interi… Per esempio una cosa stupenda, in Corso Giulio Cesare. Ho visto un bambino che avrà avuto dieci o dodici anni, non di più, dalla statura, uscire da un portone. C’erano i carri armati tedeschi, c’erano i fascisti della “Monterosa” che partivano da Borgo Vittoria. Ho visto il bambino strisciare, andare strisciando sotto un carro armato e incendiarlo con una bottiglia molotov.
(…)
E in piazza Vittorio uomini, ma soprattutto donne, che andavano a raccogliere i feriti e li portavano in ambulatori improvvisati. Il servizio sanitario in mano alla Lia Corinaldi ha funzionato alla perfezione. Se c’era un ferito si andava assolutamente a prenderlo. Le donne strappavano le lenzuola per farne bende. In piazza Vittorio si combatteva, in via Asti si sparava.
Torino l’hanno liberata le SAP e gli operai. Quando sono arrivati i partigiani Torino era già libera. Alla Stazione Dora c’è stata ancora una battaglia combattuta dai sappisti e dai partigiani di Burlando, perché proprio qui c’era una fabbrica militare occupata dai tedeschi. E così abbiamo avuto la città libera”.

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